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lunedì 8 luglio 2013

Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue?

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Lampedusa 8/07/2013

Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta per favore. .........
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Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.

«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!

Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.

«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare.

«Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!

Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto.

«Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha pianto?». Chi ha pianto oggi nel mondo?

Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore!

Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».

giovedì 4 luglio 2013

Senza fine il dramma dei profughi del Sinai: la testimonianza di Alganesh Fessaha




Un dramma a pochi chilometri dalle spiagge del Mar Rosso, frequentate ogni anno da milioni di occidentali. E’ quello di migliaia di profughi in fuga sopratutto dall’Eritrea, che si affidano a trafficanti senza scrupoli per raggiungere Israele, attraversando il Sinai. Una terra di passaggio, che diventa la loro tragica prigione: in centinaia vengono sequestrati e torturati, nell’indifferenza pressoché totale. Ad aiutarli a fuggire c'è anche una donna: la dottoressa Alganesh Fessaha dell'Ong Ghandi, che insieme al giovane sceicco egiziano Mohammed Ali Hassan Awwad, ha salvato centinaia di persone. Salvatore Sabatino l’ha intervistata:

R. - Da sei anni sono nel Sinai e aiuto i profughi a fuggire. L’altra settimana ho ricevuto una richiesta di aiuto da sei persone. Mi sono messa d’accordo con lo sceicco egiziano Mohammed Ali Hassan Awwad su come liberarli. Solo alle sei della mattina successiva siamo riusciti a liberarli. E' entrato sparando insieme a 15 persone, ha fermato i guardiani e i torturatori; è entrato nelle stanze ed ha liberato le sei persone che erano incatenate. Mi ha chiamato e le abbiamo portate in un posto segreto.

D. - Noi abbiamo visto delle immagini terribili di come queste persone sono trattate, delle torture che devono subire quotidianamente. Rispetto alla mobilitazione della Comunità internazionale, le cose stanno migliorando o no?

R. - Fino ad adesso non stanno migliorando. Ora se ne parla di più a livello informativo tramite giornali, televisioni … però lì non ho visto nessun tipo di intervento.

D. - Questa situazione di stallo è lo specchio di quello che sta vivendo un po’ tutto l’Egitto in questo momento. Quanto la situazione politica del Paese influisce negativamente su quello che sta accadendo in Sinai?

R. - Parecchio, soprattutto adesso. Io sono arrivata prima che iniziasse l’occupazione di domenica scorsa a Piazza Tahrir. Però, già dal 25 giugno qualcosa si stava muovendo; la polizia che era sul ponte di Salam Bridge si era spostata verso Il Cairo. Adesso il Sinai è il territorio dei beduini, tanto è vero che mi chiamano dal Sinai e mi dicono che lì la situazione è tranquilla; ogni clan è armatissimo fino ai denti con armi di ultimissima generazione.

D. - È bene sottolineare che tutto questo avviene a davvero pochi chilometri da quelli che sono i luoghi turistici che frequentano tutti gli occidentali …

R. - Fa male, perché non è lontano da Sharm el Sheik o altre zone turistiche, come Taba … E non è lontano neanche dalla frontiera con Israele. Ad esempio, le persone che ho liberato sono a un chilometro e mezzo dalla frontiera con Israele.

D. - Vuole lanciare un appello attraverso i microfoni della Radio Vaticana?

R. - Sì. Faccio appello a tutte le nazioni, soprattutto a quelle africane affinché prendano coscienza di questa realtà per fermare questo stillicidio. Poi faccio appello a tutti i governi europei perché si impegnino su questa realtà, perché è una realtà drammatica, disumana. Tutti quanti potrebbero fare leva - soprattutto l’America, che ha una grande influenza sull’Egitto - ma fino ad ora non l’hanno fatto. Personalmente, con la mia ong mi sono rivolta alla Comunità europea, ai Paesi africani, all’Unione Africana, al governo italiano, ai governi della Libia e del Sudan … Fino ad ora la risposta è stata oscura.


fonte: http://it.radiovaticana.va/news/2013/07/03/senza_fine_il_dramma_dei_profughi_del_sinai:_la_testimonianza_di/it1-707127 

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